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Sulla Brexit si è scritto e dibattuto troppo, talvolta arbitrariamente, e troppo poco, per indagare le vere cause che ne sono state all’origine. A circa tre anni dal referendum del giugno 2016, col quale i remain si fermarono al 48,1%, e superando la scadenza del 29 marzo, prima, e del 12 aprile dopo, Theresa May ha ottenuto dal vertice straordinario dei capi di Stato e di governo della Unione Europea una ulteriore proroga fino al 31 ottobre. Ma Brexit si può definire una rivoluzione all’interno dell’UE dove un’area così importante politicamente ed economicamente, quale la Gran Bretagna, sceglie democraticamente, attraverso un referendum, di abbandonarla?
La mia risposta è no. È solo la conclusione di un lungo processo iniziato già col Trattato di Maastricht e continuato, silente ma ineludibile, fino all’utilizzo dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola l’uscita di un Paese membro. D’altronde, appaiono strumentali tutte le previsioni negative sull’economia fatte all’epoca, in senso opposto, sia da Cameron, favorevole al Bremain, sia da Farage, sostenitore della Brexit. E ancor più quelle del Tesoro britannico che prospetta, in caso di un vero e proprio shock nel primo anno di Brexit, un decremento del pil del 6%, la cancellazione di oltre 800.000 occupati e un calo dei salari del 4%.
In particolare sotto il profilo finanziario, i trasferimenti di alcuni istituti di credito o di assicurazioni al di fuori del Regno Unito sono stati interpretati come fenomeno patologico invece che fisiologico. In realtà, il cosiddetto passaporto europeo prevede non poche agevolazioni per le banche che operano all’interno della Unione europea, quali il finanziamento diretto di altre loro sedi, sempre all’interno della UE, o non pochi vantaggi per l’apertura di filiali. Il loro abbandono del Regno Unito è solo la opportuna valutazione del rischio di perderli e che ha spinto Banche universali quali Goldman Sachs o Morgan Stanley ad avviare il trasferimento verso Francoforte. Non si dimentichi, però, che sin dallo scorso anno, la Bank of England ha rassicurato le filiali di intermediari finanziari che svolgono la loro attività nel Regno Unito che nulla cambierà.
L’obiettivo di una soft Brexit, evitando un no deal, è interesse anche, e forse soprattutto, dell’Europa continentale, dove Germania e Francia esportano rispettivamente all’incirca 90 e 36 miliardi di dollari – seguiti da Cina, Stati Uniti, Paesi Bassi, Belgio e Italia – e importano per un valore di poco meno della metà.
La separazione dell’Isola dall’Europa unita, d’altronde, è di vecchia data. All’atto della sottoscrizione del Trattato di Maastricht, il cancelliere dello scacchiere inglese era assente e, grazie alla clausola opt-out, l’Inghilterra rifiutò la moneta unica, l’euro, non entrò a far parte di Schengen e non adottò la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei.
Questo spiega perché poche ore dopo il risultato del referendum buona parte dei britannici abbia, attraverso internet, chiesto informazioni su cosa sia l’Unione europea.