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Terziario e autoveicoli popolano i tavoli del Mise insieme con le costruzioni.
La fuga delle multinazionali arginata dalle iniziative di altri partner stranieri.
L’impresa famigliare, in particolare quella legata a settori dorsali del manifatturiero italiano, ha ormai messo la testa fuori dalla crisi strutturale degli ultimi anni, soprattutto grazie alla proiezione sui mercati internazionali. Ma nella crisi restano ancora invischiati interi settori dell’economia italiana, con migliaia di lavoratori coinvolti. Realtà, per esempio, riconducibili al mondo della grande distribuzione organizzata, dell’industria del trasporto e di quella delle costruzioni, tra i principali comparti protagonisti dei 138 tavoli di crisi del ministero dello Sviluppo economico che, con un carico di 210mila addetti coinvolti, cercheranno nel corso del 2019 una soluzione nell’ambito della task force costituita all’interno dello stesso Mise.
I tavoli del recente passato legati all’industria manifatturiera e delle Pmi in qualche modo hanno trovato e stanno trovando una composizione, anche se con il contributo di capitali e iniziative estere, e solo in rari casi con il coinvolgimento di imprenditori italiani. I settori ora in sofferenza sono invece accomunati dal fatto di essere legati, per motivi diversi, alle politiche pubbliche.
Le difficoltà di alcuni pezzi della grande distribuzione, per esempio, sono riconducibili a scelte politiche locali che spesso hanno portato a gestire l’espansione commerciale in maniera disarticolata. Il tavolo più preoccupante, e emblematico da questo punto di vista, è quello legato alle catene Superdì e Iperdì, con dipendenti e negozi sparsi in tutta Italia; a questa realtà si affiancano le difficoltà di Coop Tirreno e di Auchan in alcuni territori. «L’antesignana di questa situazione è stata, per certi versi, Mercatone Uno – spiegano dall’Unità di crisi del Mise-. La crisi di queste realtà di solito investe i territori in maniera diffusa, riguarda spesso anche società piccole e poco conosciute, ma con una dimensione occupazionale preoccupante su scala nazionale. Sono tavoli difficili da gestire, perché questi lavoratori non hanno orari pieni, hanno reddito basso e professionalità limitate». È un settore che a causa della frammentazione territoriale delle autorizzazioni commerciali vive situazioni a volte contraddittorie, «come nel caso delle licenze all’ingresso di nuove realtà, che aggrediscono mercati dove sono già insediate altri competitor», dicono dal Mise.
Altro settore in crisi da anni è quello delle costruzioni. I dati dei sindacati dei lavoratori, di Ance e dei produttori di calcestruzzo denunciano da anni il dimezzamento di una filiera che dà lavoro a migliaia di addetti. Le recenti difficoltà di alcune grosse realtà, come Astaldi, Condotte, Tecnis, Cmc sono in un certo senso il punto di approdo della perdurante stagnazione del mercato italiano. «Se si guardano i bilanci è evidente come i problemi siano stati trascinati fino a oggi» conferma la task force dei tavoli di crisi: ora che contenziosi vari e crediti non sono stati onorati e le banche hanno stretto i cordoni, il tappo è saltato.
Il terzo settore «malato» è quello dei trasporti, con difficoltà recenti come quella di Bombardier a Vado Ligure (dove si produce anche il Frecciarossa), che si affiancano ad altre situazioni, come per esempio il collasso dell’industria italiana degli autobus, o la fase di incertezza della ex Firema con la gestione indiana, fino ad arrivare alla crisi della Iveco di Bolzano (trasporto militare).
Prospettive più «incoraggianti», invece, per alcuni tavoli che vedono protagoniste multinazionali in fuga dall’Italia, come Embraco, Honeywell, Bekaert: i progetti di ristrutturazione e rilancio in alcuni casi sono già avviati (dalle linee di produzione dello stabilimento dell’ex Embraco di Riva di Chieri dovrebbero uscire nei prossimi mesi i primi mini-robot pulitori di pannelli solari) in altri è stata individuata una short list di investitori interessati (per Bekaert si è fatto il nome della bielorussa Bmz, seguita a ruota da Pittini, Eusider e gruppo Adler).
Ma in questa gestione la grande assente è stata la spinta propositiva dell’impresa italiana, che in questi anni ha preferito concentrarsi sulle proprie ferite e sul rilancio, spesso operato sui mercati globali. Questi spazi sono stati respinti da nuovi investitori provenienti dai paesi emergenti. Sono cinesi, per esempio, i nuovi proprietari della Honeywell: Baomarc, il soggetto che rilancerà il sito di Atessa, è direttamente riconducibile al colosso mondiale dell’acciaio Baowu, che mette così un piede importante nella catena della componentistica auto nazionale. Si segue la pista cinese anche nella ricerca di una compratore per gli asset della Comital (alluminio), mentre l’ex Lucchini (acciaio) è stata ceduta agli algerini di Cevital, che poi a loro volta l’hanno venduta agli indiani di Jindal.
In altri casi le multinazionali lasciano il paese senza proporre alternative, e anche il Decreto dignità sembra potere fare poco. È il caso della Hag, che ha deciso di spostare la produzione di capsule dal Piemonte alla Germania, o dello stabilimento italiano della Ball packaging, a San Martino sulla Marrucina, in provincia di Chieti, dove si producono lattine per Coca Cola, Red Bull e altri colossi del beverage. Quest’ultima (controlla un altro sito in provincia di Verona) ha deciso di chiudere la produzione in Abruzzo. «Chiude senza nemmeno sfruttare la cassa integrazione – fanno sapere dalla task force del Mise- e chiede un tavolo per discutere quanti soldi dare ai lavoratori, 70, 80, fino a 100mila euro a testa».