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La visione è chiara. Accrescere la disponibilità di capitali per il venture capital in Italia a un miliardo almeno, con un forte intervento pubblico. Concentrare le operazioni attorno a una nuova struttura della Cassa Depositi e Prestiti. Che a Roma creerà una vera e propria “casa del venture capital”, con attività di accelerazione, uffici di coordinamento delle azioni territoriali, un team dedicato che possa investire direttamente in startup o operare come fondo dei fondi, seguirne passo passo l’evoluzione e alimentarne la crescita del fatturato attraverso le connessioni con il suo network di aziende avviate. Tutto attorno, misure per favorire l’intera filiera: dalla trasformazione della ricerca scientifica e tecnologica in spin off e imprese innovative all’acquisizione di startup da parte di aziende esistenti.
Certo, questo miliardo piace agli operatori perché consente di superare l’asfissia della mancanza di capitali che ha assillato le startup italiane finora. Arriverà dal 15% dei dividendi delle aziende pubbliche e da una quota dei Pir. E potrà persino superare i due miliardi considerando anche tutte le agevolazioni fiscali previste dalla legge di bilancio, a favore di chi investe in startup e in venture capital. Si delineano i contorni della più grande manovra sull’ecosistema dell’innovazione mai tentata in Italia dal 2012, quando il governo introdusse la legislazione fondativa che rese l’Italia più ospitale per questo tipo di aziende.
Ebbene: tutta, o quasi, la comunità degli operatori si è riunita a Torino, alle Officine Grandi Riparazioni, per incontrare il vicepremier Luigi Di Maio che nella sua veste di ministro dello Sviluppo ha sostenuto e lanciato la riforma. Per l’ecosistema dell’innovazione, la nuova architettura normativa a favore del venture capital appare potenzialmente un fondamentale acceleratore. Certo, i dati mostrati da Alberto Onetti, presidente di Mind the Bridge, sulle dimensioni dell’ecosistema delle startup italiane non lasciano dubbi: «il paese è partito tardi e va più lentamente degli altri» dice Onetti. E in effetti secondo Pwc, gli investimenti in venture capital in Italia non superano lo 0,5% del Pil, contro una media europea del 4%. Ma il Fondo Nazionale Innovazione previsto dal governo potrebbe servire a iniziare un recupero.
«L’impatto del Fondo Nazionale Innovazione lo vedremo nei prossimi anni» dice Di Maio. «Puntiamo direttamente a un miliardo e con le misure aggiuntive e gli sgravi fiscali ci aspettiamo due miliardi. Speriamo che questo provochi un aumento del numero di fondi di venture capital italiani, l’attrazione di fondi stranieri, la moltiplicazione delle opportunità per gli innovatori italiani. Questo fondo è strategico per l’economia, per il paese e per far restare i talenti italiani e attrarne dall’estero».
Il perno operativo sarà appunto la Cdp, che gestirà anche i fondi in precedenza affidati a Invitalia. Quali saranno le sue priorità? A Torino ne ha parlato l’amministratore delegato e direttore generale Fabrizio Palermo. «Cdp sostiene il venture capital da anni. Ma oggi c’è un cambio di passo, in termini di disponibilità di denaro e non solo. Cdp può seguire le startup in tutta la loro vita, può aiutarle a fatturate mettendo in campo un network di aziende esistenti pronte ad ascoltarle, può favorirle nell’attrazione di talenti, può aiutarle a conoscere le opportunità del territorio e a connettersi all’università e all’ecosistema locale. Investiremo in startup direttamente e come fondo dei fondi. Il team che si occuperà di tutto questo è in formazione: ci stiamo lavorando. La sede del fondo sarà a Roma».
I panel organizzati per discutere la policy del governo sulle startup oggi a Torino non erano fatti per mettere in discussione l’architettura della nuova policy sul venture capital ma per chiosarne alcuni aspetti. Del resto, gli operatori in sala sono fondamentalmente molto favorevoli a questo progetto: come Marco Gay, di Digital Magics che parla di un miglioramento nella consapevolezza del governo su questi temi, sia in termini di tempi che di contenuti. I commenti fondamentali sono stati orientati a mostrare come i soldi, che diventeranno più abbondanti, vadano guidati da una competenza reale, in tutti i passaggi. I numerosi interventi hanno sottolineato come il ruolo del pubblico si sia già rivelato decisivo in altri paesi e nella stessa Italia. E che la maggiore disponibilità di denaro non sarà eccessiva, perché l’esigenza di innovazione e di finanziamento all’innovazione abbonda in Italia. «Solo noi abbiamo valutato 600 progetti l’anno scorso» ha detto Elisa Schembari, direttore generale di RedSeed Ventures. E altri venture capitalist, come Andrea Di Camillo, P101, e Gianluca Dettori, Primo Miglio, concordavano, ricordando anche che la maggior disponibilità di capitali serve anche alle startup esistenti che devono poter attrarre talenti e crescere più velocemente. Elisabeth Robinson, di Indaco, ha proposto due aggiustamenti: «Il fondo dei fondi ha anche una funzione di standardizzazione dei comportamenti: potrebbe servire anche alle Sis che nascono senza controllo di Banca d’Italia e che se avessero come socia la Cdp potrebbero essere guidate più consapevolmente. E poi si potrebbe quotare in borsaun fondo di fondi».
L’equilibrio tra pubblico e privato e l’intervento diretto dello stato nelle startup sono argomenti potenzialmente controversi. E la discussione in atto nel paese, come tra l’altro ha dimostrato anche la pagina pubblicata dal Sole 24 Ore domenica scorsa, continua.
A Torino, dopo la serie degli interventi – impossibile ricordarli tutti – Di Maio ha proposto le sue conclusioni. «Non è il governo che deve fare il regista di questo mondo delle startup» da detto il ministro dello Sviluppo e del Lavoro. «Ma il governo può aiutare la manifattura italiana con la formazione e la produttività. Per la formazione ci stiamo impegnando con gli strumenti esistenti e con le politiche attive del lavoro. Per la produttività dobbiamo puntare sulla digitalizzazione».