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Un balzo che sfiora il 70% e che forse ha reso l’Italia del post-crisi una “piazza” più interessante su cui far convergere iniezioni di capitali e investimenti attraverso la formula M&A. Che in un caso su 4 sono giunti dagli Stati Uniti, e che – al netto di infondati timori su invasioni di capitali dall’Asia – per il resto provengono dalle medio-grandi corporation europee (da Francia, Gran Bretagna e Germania soprattutto).
Soci o compratori “imprenditori” più che finanziari, a riprova che il “Made in Italy” attrae più per la sua capacità innovativa e di inserimento nelle supply chain internazionali che per farne uno spezzatino dal profitto immediato.
A scattare una fotografia della maggiore capacità attrattiva degli investimenti esteri – in termini di M&A – da parte delle imprese italiane (con fatturati tra 50 e 500 milioni) è la ricerca commissionata dallo studio legale Hogan Lovells al Politecnico di Milano.
In base alla rilevazione sono 225 le società che – nel periodo considerato 2013-2016 – hanno visto cambiare il proprio assetto societario con l’ingresso di almeno un investitore estero. Passando da 42 operazioni nel 2013 a ben 70 nel 2016, tra primo e ultimo anno un balzo del 67% (dall’analisi – sono state escluse le acquisizioni di società in dissesto o in amministrazione straordinaria).
Con 54 operazioni all’attivo in 4 anni, sono gli Stati Uniti i top acquirer. Seguono il Regno Unito con 29 deal (13%) e la Francia con 26 (12%). Al netto dei clichè, la Cina – ferma a 12 – è lontana dal podio dei Paesi “attratti” dall’Italia.
Per quanto riguarda i valori delle transazioni, la ricerca rivela che «su un sotto-campione di 109 società (sul restante non è stato possibile reperire i dati)», il flusso di investimenti è stato pari a 29 miliardi e il valore medio per deal si è attestato sui 266 milioni. Tuttavia, il grosso delle operazioni le fanno appena 6 Paesi. Tutte insieme, in Italia, le operazioni di Usa, Uk, Giappone, Svezia, Francia e Spagna hanno raggiunto i 24,4 miliardi: l’84% del totale.
«Nel lavoro – ha sottolineato Marco Giorgino, docente al Politecnico di Milano e direttore della ricerca – abbiamo voluto affiancare anche una lettura più qualitativa, intervistando i top manager e rilevando che la motivazione principale per il cambio è dettata da interessi strategici per il 38% dei casi mentre per il 25% da ragioni legate alla governance. L’entrata di soci esteri, a prezzi tutt’altro che scontati, contribuisce all’apertura di nuovi mercati, alla diversificazione di prodotto e alla realizzazione di nuove partnership». Non a caso, forse, l’identikit di chi acquista fotografa, nel 57% dei casi, investitori strategici, mentre nel 43% sono finanziari, come fondi di private equity e investitori istituzionali.
Privilegiati sono gli investimenti industriali, per una media del 71% con punte del 76 nel 2013 e del 74% nel 2016. In testa, ci sono il food & beverage (17% delle operazioni) e la meccanica (7%).
«Dall’analisi – ha spiegato Luca Picone, country manager di Hogan Lovells – si evince come gli investimenti stranieri portino un triplice beneficio: il primo per i venditori, che di prassi vendono a valori importanti (il multiplo medio di termini di Ev/Ebitda in queste operazioni è ben superiore al multiplo medio riscontrato nello stesso periodo per operazioni di M&A puramente “domestiche”); il secondo per chi acquista, che può far leva sull’eccellenza italiana per diversificare e internazionalizzare e il terzo beneficio è per la stessa società target , che, grazie ai nuovi capitali, agli investimenti, all’apertura a nuovi mercati e anche grazie all’ingresso di un nuovo management, vedono incrementare opportunità di crescita e valore».