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Confisca per insider trading concentrata sul solo profitto del reato e non anche sul prodotto e sui beni utilizzati per commetterlo. A questa conclusione approda la Corte costituzionale, con la sentenza n. 112 depositata da Francesco Viganò. Per la Consulta queste particolari forme di confisca, abbinate alle elevatissime sanzioni pecuniarie previste dal Testo unico della finanza, conducono a risultati punitivi in contrasto con il principio della necessaria proporzionalità della sanzione, che la Corte ha ritenuto applicabile anche agli illeciti amministrativi con uno spiccato carattere punitivo.
Concettualmente, ricorda la sentenza, il «prodotto» di un illecito come l’abuso di informazioni privilegiate, che consiste in operazioni di compravendita di strumenti finanziari da parte di chi è in possesso di un’informazione ancora riservata, la cui successiva diffusione al pubblico potrebbe determinare una variazione del prezzo dei titoli, non può che essere rappresentato dall’insieme degli strumenti acquistati oppure dall’intera somma ricavata dalla loro vendita.
Il «profitto» è, invece, l’utilità economica conseguita attraverso l’illecito. Nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto consiste allora, afferma la Corte, nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata della quale l’agente disponeva diviene pubblica, calcolato più in particolare sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore per compiere l’operazione. Quanto ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, in materia di abusi di mercato non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella transazione, oppure negli strumenti finanziari venduti dall’autore. A tutto ciò si aggiunge poi una sanzione pecuniaria amministrativa di grande severità, visto che può arrivare sino a cinque milioni di euro.
Esemplare della distorsione cui può condurre l’applicazone della confisca “estesa” è il caso oggetto del giudizio della Corte costituzionale. L’autore di una condotta di insider trading è stato infatti punito con una sanzione pecuniaria di 200mila euro, che si è aggiunta alla confisca per equivalente dell’intero valore delle azioni acquistate avvalendosi di un’informazione privilegiata, pari a ulteriori 149.760 euro a fronte di un vantaggio economico di 26.580 euro conseguito dall’operazione.
A conti fatti, la componente “punitiva” della complessiva sanzione, risultato della somma tra la sanzione pecuniaria e la confisca di ciò che eccede rispetto al profitto tratto dall’operazione, è stata pari a circa 13 volte il profitto: «Un coefficiente che non può che apparire manifestamente eccessivo rispetto ai legittimi scopi di prevenzione generale e speciale perseguiti dalla norma che vieta l’insider trading».
Del resto, la bocciatura della norma, l’articolo 187 sexies del Tuf, rappresenta alla fine la logica conseguenza di una situazione critica di cui la stessa Consob è pienamente consapevole. E alla quale il legislatore, con l’ultimo intervento normativo sul punto, il decreto legislativo 107/18, ha evitato di porre rimedio.
Nel corso dei lavori parlamentari, infatti, Consob (ma a dire la verità anche la legge delega a monte faceva riferimento al solo profitto, ignorando il resto) aveva sollecitato invano un intervento di riduzione dell’area della confisca.