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La lotta contro il cambiamento climatico non è un affare esclusivo di governi, comportamenti individuali e imprese inquinanti. La riduzione dell’impronta ecologica passa anche dal sistema finanziario. Nel 2019 il Regno Unito è stato il primo paese a pubblicare un libro bianco, il Green Finance Strategy, collegato all’impegno dichiarato di raggiungere un livello netto di emissioni pari a zero entro il 2050.
Nel discorso tenuto a Bruxelles lo scorso 21 marzo, il governatore della Bank of England Mark Carney ha dichiarato che ogni asset finanziario dovrà essere rivalutato in un mondo a zero emissioni: così le aziende che si allineeranno a questa visione saranno ampiamente ricompensate, chi invece non si adatterà al trend cesserà semplicemente di esistere. Carney ha citato nel suo contributo un economista, Hyman Minsky, che sosteneva che le crisi economiche sono causate da rischi nascosti.
Un esempio di società che ha sottovalutato il climate change è la multiutility californiana Pacific Gas & Electric: l’aumento sproporzionato dell’incidenza degli incendi durante la stagione nel Golden State ha danneggiato le reti elettriche e in questo modo l’azienda ha dovuto dichiarare bancarotta il 14 gennaio 2019. E al momento gli istituti di credito devono ancora fare molta strada. Un’inchiesta del Guardian pubblicata lo scorso 13 ottobre ha indicato i nomi di quelle banche che continuano a prestare soldi ai produttori di combustibili fossili, ritenendo che non sia loro compito quello di badare alle emissioni dei loro clienti. Ma a livello globale, ben 45 istituzioni hanno deciso di aderire allo Science Based Target Initiative, uno sforzo volontario per ridurre le emissioni in modo da evitare l’aumento di 2 gradi centigradi delle temperature a livello globale.
Tra queste c’è l’olandese Ing Direct, che ha al suo interno un’unità dedicata alla sostenibilità globale, che analizza le proprietà fisiche delle aziende e la loro impronta ecologica per capire quanto capitale fornirgli. Altri soggetti che hanno aderito a questa iniziativa sono la britannica HSBC e la francese Société Générale. Ma al momento nessuno strumento raffinato di analisi del rischio climatico è a disposizione.
E l’Italia? Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, partecipando alla Conferenza internazionale sulla valutazione del rischio di credito a Venezia il 26 settembre, ha detto che “le banche centrali, le autorità di vigilanza e il settore finanziario non possono sostituirsi a coloro che possono mettere in atto le politiche necessarie per decarbonizzare i nostri sistemi energetici, ma possono offrire il loro contributo per facilitare questo processo”.
Ma è italiano lo studio che ha valutato come potenzialmente catastrofico l’impatto sulla stabilità del sistema finanziario: pubblicato su Nature Climate Change e firmato dai ricercatori Francesco Lamperti, Valentina Bosetti, Andrea Roventini e Massimo Tavoni, che lavorano presso il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. In sintesi: il dissesto idrogeologico e le piogge estreme provocherebbero un forte aumento dei fallimenti delle banche, in un range compreso tra il 26% e il 248%.
Di conseguenza, il loro salvataggio costerebbe dal 5 al 15% in più agli stati, facendo raddoppiare il debito pubblico. Ma come si può limitare questo effetto dirompente. Secondo Roventini “il regolatore finanziario deve fare la sua parte limitando le linee di credito alle imprese tenendo conto del cambiamento climatico e minimizzando così il rischio collegato”. Ma, come detto, dal governatore Visco, sono i governi a dover fare la parte maggiore. Banche e servizi finanziari possono solo limitarsi a una moral suasion fatta mediante una stretta creditizia. Che però, da sola, non può bastare.