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Determinate a non perdere terreno nei mercati storici, ma poco coraggiose verso quelli emergenti. Ancora troppo legate a una governance familiare. Divise, nell’approccio a internet, tra evolute e rinunciatarie. Il ritratto delle medie imprese che emerge dall’annuale indagine Unioncamere-Mediobanca fa riflettere sulle potenzialità inespresse di un pezzo importante delle nostre esportazioni, ancora ingabbiato dentro attitudini tradizionali.
Il rapporto esamina 3.462 imprese manifatturiere che hanno una forza lavoro compresa tra 50 e 400 unità e vendite comprese tra 16 e 355 milioni di euro. Il primo dato è la difficoltà incontrata nel 2018: solo il 27% ha registrato un aumento delle vendite all’estero, a differenza del 46% del 2017. È aumentata la quota di aziende che hanno chiuso su livelli stazionari mentre passano dal 4 all’1% quelle che segnalano un calo. Le previsioni per il 2019 indicano una leggera risalita, con il 32% di medie imprese che stima un aumento dell’export: gli Usa il mercato più promettente. «Le proiezioni 2019 sono soprattutto un effetto rimbalzo – dice Guido Mauriello, direttore dell’Istituto Tagliacarne-Unioncamere -. L’indagine ci dice che per questa categoria di imprese l’“export” tira ancora ma pesano gli effetti del rallentamento internazionale, con delle differenze. Le più strutturate reggono meglio. Negli ultimi due anni invece quelle più piccole, meno attrezzate, che restano ancorate a una visione puramente commerciale, stanno soffrendo».
Il 91% di medie imprese esportatrici dell’ultima indagine si confronta con il 94% dell’anno prima. Il 44% di componente export sul fatturato totale è un punto in meno della precedente rilevazione. «Sono piccoli scostamenti, ma indicano comunque una difficoltà indotta dallo scenario internazionale».
La mappa delle esportazioni
L’abito tradizionale indossato dalle medie imprese si nota già guardando la mappa delle loro esportazioni. Una quota altissima delle esportatrici, il 93%, vende nella Ue che è addirittura il mercato principale per il 74%. Poi gli Usa, terra di export per il 29%, ma mercato principale per il 6%. «Dalle indicazioni che abbiamo raccolto – commenta Mauriello – proprio gli Stati Uniti sono l’area più promettente per il 2019, con maggiori margini di crescita». Analisi contraria per la Russia e l’Est Europa, destinazione di vendita per il 21% e mercato principale per il 6%. «Qui registriamo invece un trend in diminuzione per il 2019». Ferma poco sopra il 10% la quota di esportatrici sia in Cina (mercato principale solo per il 20%) sia nell’area Asia sud orientale e Giappone (paese target 3%). Anche le scelte dei singoli paesi si confermano molto “tradizionaliste”: sul podio ci sono Germania, Francia e Regno Unito, dove esportano rispettivamente il 56%, il 33% e il 27% delle medie imprese presenti all’estero. «Proprio questo 27% – commenta Mauriello – è una fonte di preoccupazione, considerate le incertezze sul processo della Brexit».
Pochi investimenti diretti
Nell’ultimo decennio, l’universo delle medie imprese all’estero è cresciuto soprattutto nell’alimentare, la cui quota sull’export totale del campione è salita dall’8% a oltre il 13%, e alla chimica farmaceutica (dal 10,7 al 13,5%). Al contrario ha perso un po’ terreno la locomotiva del made in Italy, la meccanica, con un peso sulle esportazioni complessive sceso dal 45 al 42%. Questo riequilibrio di forze si è accompagnato a una maturazione solo parziale del “profilo esportatore”. Appena il 14% dispone di una propria rete commerciale. Il 68% affida la strategia export a un direttore commerciale e solo l’8% dispone della figura di un direttore estero, che tra l’altro nella maggioranza dei casi fa a sua volta capo a un direttore commerciale. «C’è la tendenza ad avere il controllo pieno del canale estero – osserva il direttore dell’Istituto Tagliacarne -, a conservare il rapporto diretto con il cliente, raramente ci si affida a degli intermediari». Incide moltissimo la governance, che per un quarto di tutto l’universo “medie imprese” resta un problema per il mancato avvicendamento al vertice e la scarsa apertura a manager esterni alla famiglia. Una governance gestita in casa negli ultimi ha fatto spesso il paio con una concezione conservativa dell’internazionalizzazione, se è vero che solo il 39% ha puntato su investimenti diretti all’estero, prevalentemente di tipo commerciale e in parte minore con stabilimenti produttivi. «Molti imprenditori – dice Mauriello – ritengono che aprire uno stabilimento all’estero ha un senso solo se ti avvicina al cliente che già hai in quel paese». Anche la transizione al digitale è piena di incognite. La quota di chi esporta con l’e-commerce è passata dal 9 al 30% in tre anni. Qui il rischio è quello di una frattura netta, tra chi corre con il digitale e il 40% che ancora non utilizza attivamente internet per aumentare le proprie possibilità di affari. Il 77% delle medie imprese fattura sul web più del 10% del totale (tra export e mercato domestico), ma chi non ha abbracciato il web corre il rischio di restare irrimediabilmente indietro. Non a caso proprio il potenziamento dell’e-commerce è uno degli obiettivi del nuovo piano straordinario made in Italy varato dal governo e che vede l’Ice come soggetto attuatore. «Abbiamo previsto il raddoppio dell’investimento sui canali digitali per aumentare la presenza delle aziende italiane soprattutto Pmi e newcomer totali sulle principali piattaforme e-commerce» dice il direttore generale dell’Ice, Roberto Luongo.