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La quota del made in Italy si riduce

Business Insights

19 Settembre 2017

American Express

Se c’è una voce che negli anni della crisi ha salvato conti e posti (di lavoro) in Italia, quella è l’export. Esportiamo un elevato numero di prodotti e, per alcuni (spesso di nicchia e ignoti ai più) superiamo pure i tedeschi. Però, se la torta del commercio mondiale in questi anni è cresciuta, la nostra fetta, nel piatto, non solo non è aumentata, rispetto ai nostri competitors. Ma in qualche caso si è pure ristretta.
L’export cresce, la quota no.
Può sembrare una contraddizione. Di fatto, non lo è. Esportiamo di più. Solo nel 2016, i settori più dinamici sono stati la farmaceutica (+6,8%), i mezzi di trasporto (+5,4%) e l’agroalimentare (+4 per cento).
Ma se considerando le nostre quote sulle esportazioni mondiali di manufatti in una prospettiva temporale più lunga, l’industria italiana mostra di aver perso terreno non soltanto negli anni duemila, ma anche nel periodo 2010-16, passando – tra beni e servizi – da una quota del 3,5% nel 2006 al 2,9% dieci anni dopo. Certo, si sono affacciati nuovi attori: la Cina (che in questi anni ha guadagnato di più nei confronti di tutti), il Messico, altri Paesi emergenti.
Tuttavia, secondo l’ultimo rapporto Ice 2016-2017, sono aumentate – o almeno rimaste invariate – le quote di esportazioni mondiali di alimentari (3,9% nel 2000, 2010 e 2016), gli autoveicoli (2,8% sia nel 2010 che del 2016), la chimica (dal 2,9% del 2000 al 2,7% dell’anno scorso), la farmaceutica (dal 3,6% nel 2010 in risalita al 4,1% del 2016), la filiera della carta-stampa (3,7% nel 2010 e 3,8% oggi) la meccanica (dal 6,3% del 2000 al 6,4% dell’anno scorso). Mentre sono scese – sempre nei 3 anni di riferimento, 2000, 2010 e 2016 – quelle della filiera moda (8,3; 6,6 e 5,9%) delle calzature (14,7%, 10 e 8,1%), dei mobili (14,5; 8,8 e 6,8%), dei prodotti in gomma e plastica (6,3; 4,9 e 4,2%). Così come le vendite estere dei prodotti in metallo, degli apparecchi elettrici, dell’ottica e dell’Ict, dei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli.
Il risultato – apparentemente sorprendente – è in parte anche il frutto della crisi 2008–2013, durante il quale, nonostante una crescita complessiva delle esportazioni italiane (+ 5,4%), si è registrata una consistenze contrazione nei comparti di punta del nostro export.
Le cause
Certamente, diversificare paga. Avere una specializzazione produttiva in un numero elevato di prodotti, è un’assicurazione contro il rischio di crisi. Ma può non bastare, se siamo relativamente meno presenti nei settori più dinamici, quelli che vantano un andamento di domanda internazionale più sostenuto (anche quando questa rallenta) e nei settori più difficilmente “scalabili” dalla concorrenza internazionale “a basso costo”.
«Da questi dati – spiega Andrea Goldstein, chief economist di Nomisma – emerge come, su una prospettiva di più lungo periodo, non stiamo ancora sfruttando il nostro potenziale. A partire dalla penetrazione commerciale, che in Cina, in India, in quasi tutti i Paesi emergenti resta molto bassa rispetto ai nostri competitors europei (Germania e Francia soprattutto). Le aziende vanno, si affidano a partners, aprono qualche filiale. Ma, in generale, tranne le poche grandi che abbiamo, non investono nella penetrazione commerciale di Paesi lontani e complessi».
Il “Made in Italy”, nei grandi Paesi, sbiadisce. Poi, prosegue Goldstein, «c’è sempre il problema strutturale delle dimensioni. Le aziende piccole vanno anche più di prima nei mercati lontani, ma non hanno la forza di sostenere investimenti im portanti, magari con managers locali».
Le vendite per regioni
L’ultimo Rapporto Ice accende un “faro” anche sulla “geografia” del nostro commercio estero. Nel 2016, su oltre 417 miliardi di esportazioni, il 73% è partito dal Nord. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, da sole, producono il 66% del “Made in Italy” che parte in container. L’anno scorso, l’Italia centrale (con +2,1%) è cresciuta di più delle altre aree, ma vale per il 16,7% delle quote di esportazioni nazionali. Prima del 10,4% di tutto il Sud (Isole comprese).
Esportatori in crescita lenta
Nel 2016 è, infine, ulteriormente cresciuto il numero di aziende che esportano, a quasi 216mila.
Rispetto al dato del 2011, gli operatori sono aumentati di poco più di 8 mila unità. Una crescita costante ma molto più lenta rispetto al dispiegamento di forze e impegno (non solo economico) messo in campo dal ministero per lo Sviluppo economico e dall’Ice con “Il Piano Straordinario per il Made in Italy” e all’obiettivo di arrivare, in pochi anni, a 20mila esportatori in più sui 70mila potenziali che l’Italia avrebbe ma he ancora non si sono attivati in tal senso.
Infatti, il Piano va avanti. Così come in autunno si attende il 2° bando per finanziare la presenza di Temporary export managers nelle Pmi: 20 milioni di euro, più altri 18 sul triennio 2017-2019 ad hoc per il Sud.

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