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Il modello tutto italiano di una spina dorsale produttiva composta sostanzialmente da una miriade di piccole e medie imprese, era già stato messo in discussione prima della pandemia. Ma, dopo due ondate di Covid-19, mostra i fianchi, con tutte le debolezze del caso. Ed è quindi necessario un profondo ripensamento, che le PMI sono comunque disposte a fare. Come emerge infatti da una recente indagine realizzata da Intesa Sanpaolo in collaborazione con Piccola industria Confindustria, Monitor Deloitte e Deloitte Private, una azienda su due intende puntare sull’internazionalizzazione per ampliare la copertura geografica e avviare percorsi di ingresso nei mercati esteri di maggiore interesse; nove aziende su dieci riconoscono la necessità di rafforzare la componente patrimoniale, ribilanciando la propria esposizione verso terzi, ma anche attraverso operazioni di finanza straordinaria; una azienda su quattro ha già avviato la riconversione delle proprie linee di produzione per prodotti oggi considerati strategici (dispositivi di protezione individuale).
Il ripensamento del modello PMI è tanto più necessario in un momento nel quale sono proprio le PMI le più colpite sul fronte occupazionale: secondo quanto emerge infatti dall’indagine “Crisi, emergenza sanitaria e lavoro nelle PMI”, condotta dalla Fondazione Studi consulenti del lavoro, “l’adeguamento alle norme di sicurezza per fronteggiare l’emergenza Covid-19 ha rappresentato uno sforzo importante per tante piccole e medie realtà che hanno dovuto riorganizzare spazi, logistica, procedure e lavoro. Alla luce del riesplodere della pandemia sono diverse le criticità che le aziende si troveranno ad affrontare e, in base alle stime, tra il 2020 e il 2021 le circa 1.556.000 piccole e medie imprese italiane con meno di 250 addetti perderanno il 10% della forza lavoro. Una riduzione di 1.032.000 unità sul totale di 10.325.000 addetti, con una situazione difficile soprattutto per alberghi e ristorazione, e per la filiera del tempo libero e della cultura”.
D’altronde, sono proprio le piccole e medie imprese quelle che con più difficoltà si possono adattare allo smart working, sia per le caratteristiche dell’attività svolta (più frequentemente di prossimità) sia per le maggiori problematiche attuative. A fine settembre, per esempio, quasi otto dipendenti su dieci, che durante il lockdown avevano lavorato da casa, erano ritornati nelle sedi delle PMI, mentre solo una minoranza (17,7%) proseguiva in remoto.
Per affrontare con successo la sfida dell’internazionalizzazione, tuttavia, le piccole e medie imprese devono diventare sempre più grandi, lasciando un po’ sullo sfondo il mito della microimpresa e dei capannoni che invece aveva alimentato tanta letteratura degli anni Novanta e Duemila. Come spiega bene Francesco Mutti, amministratore delegato del gruppo Mutti e presidente di Centromarca, “L’Italia è tra il terzo e quarto posto per export agroalimentare in Europa. Al primo posto c’è la Germania, e può sembrare un paradosso. Ma conta la dimensione. Per competere nel mondo un gruppo agroalimentare deve avere almeno un miliardo di euro di fatturato”, commenta Mutti, “e rimane comunque una azienda piccola. In Italia, invece, l’86% delle imprese agroalimentari fattura meno di dieci milioni di euro. Ci sono solo 49 aziende su 50 mila con un fatturato superiore ai 350 milioni di euro. E quelle 49 aziende, che pesano lo 0,1% sul totale aziende, fanno però il 52% dell’export”.
Infine, c’è il capitolo digitale. Qui serve un cambio di passo culturale che porti nelle PMI il definitivo decollo dei pagamenti elettronici, dell’e-commerce, dell’utilizzo dei big data per elaborare le proprie strategie, appoggiandosi sui grandi fornitori esterni sia per i data server, sia per l’affinamento degli algoritmi necessari.