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Il commercio «ibrido» è realtà in 24mila esercizi: l’acquirente è servito sia online che offline
Il problema per le imprese della moda, oggi, non è vendere prodotti di moda ma capire che cosa fa moda. Non è un gioco di parole. Tutt’altro. È l’essenza della rivoluzione digitale, che applicata al settore è una rivoluzione al quadrato. Perché arriva a sconvolgere i modelli di business e i criteri di accesso (e successo) sul mercato. Il concetto è presto spiegato. Fino a ieri erano i creativi a imporre linee di abbigliamento, colori, accessori. Adesso, grazie a internet, ai social network, all’e-commerce, le leve della creatività sono passate nelle mani dei clienti finali. Sono loro a lanciare, stili, tendenze, vezzi, in concreto a stabilire che cosa comprare e che cosa no. Le sfilate, le collezioni, gli appuntamenti mondani, rimangono, certo, in quanto tratti caratteristici del Dna del fashion. Ma nei quartier generali dei grandi brand, da Gucci ad Armani, e a maggior ragione all’interno delle piccole imprese e nelle startup in cerca di affermazione, la nuova parola d’ordine è chiarissima: cavalcare il web.
Il classico ribaltamento di paradigma. Il tessile-abbigliamento-accessori-moda, straordinaria vetrina del made in Italy, comparto che conta oltre 46 mila aziende con 400 mila addetti e che vale 53 miliardi di fatturato, il 56% sui mercati internazionali, deve fare i conti (letteralmente) con un concetto pressoché sconosciuto fino a poco tempo fa: la centralità del cliente. Roberto Liscia, presidente di Netcomm, il consorzio del commercio elettronico, non ha dubbi: «Per decenni le maison sono state quasi cieche verso i consumatori. Designer e fashion stylist lavoravano su una sorta di torre d’avorio e facevano calare dall’alto le loro idee. Ora la moda nasce dal basso ed è meglio tenere occhi e orecchie ben aperti. Il lusso ha un mercato planetario di un miliardo di persone. Grazie alle tecnologie digitali è possibile conoscere, fin nei dettagli, i gusti di tutti i potenziali acquirenti: si potrebbero sfornare prodotti su misura per ognuno di loro. Per farla breve, non c’è solo il boom dell’ecommerce: là davanti si apre una prateria interamente da esplorare».
Detto da uno dei maggiori esperti di ecommerce, beh, c’è da crederci. E comunque le vendite su internet sono un bell’indicatore, altroché. Il segmento dell’abbigliamento è cresciuto in Rete del 35% nel 2016 e chiuderà il 2017 con un probabile +23%, dato nettamente migliore al pur lusinghiero +17% del commercio elettronico nel suo insieme. In soldoni, fanno 3,6 miliardi, dei quali 2,1 corrispondenti a ordini di clienti italiani e 1,5 di clienti esteri (considerabili, quindi, come export). Ancora: l’online ormai influenza oltre un terzo delle vendite nel settore. Per non parlare dell’esplosione del cosiddetto commercio ibrido. «Tra gli scaffali» sottolinea Valentina Pontiggia, direttore dell’Osservatorio innovazione digitale nel retail del Politecnico di Milano, «spuntano colonnine touchscreen, realtà aumentata, camerini virtuali, e chi più ne ha più ne metta. L’obiettivo è evidente: sfruttare la tecnologia per esaltare l’esperienza d’acquisto e renderla unica, indimenticabile». Ecco allora, giusto per fare qualche esempio, che Ovs spinge al massimo sulla digitalizzazione dei suoi punti vendita, mentre Amazon, per contro, sta seriamente pensando di allestire magazzini «fisici» aperti al pubblico. Non finisce qui: volenti o nolenti, le imprese devono attentamente tenere d’occhio il Ropo (Research online purchase offline) e il Topo (Try offline purchase online), cioè i comportamenti di quanti ricercano informazioni sul web e poi procedono all’acquisto in negozio, o all’opposto di coloro che si informano in negozio (specialmente sui prezzi) e dopo comprano online. Risultato: secondo Netcomm, in Italia già ci sono 24 mila punti vendita che offrono servizi in qualche modo collegati all’ecommerce: ritiro di merce acquistata in Rete, servizio di reso, e così via.
Insomma, se qualcuno è fermo al semplice sito internet è fuori dalla realtà (competitiva). «La presenza sul web è ormai una precondizione» assicura Mauro Chezzi, vicedirettore di Smi, Sistema moda Italia. «Il passaggio chiave, per le nostre aziende, è dotarsi di un’autentica strategia digitale. Che significa sapere guardare a monte, innovando i processi e i rapporti con l’intera filiera, e a valle, andando a esplorare fino in fondo i comportamenti del consumatore». Resta un piccolo particolare: le imprese sono consapevoli che il futuro è adesso? «In effetti» ammette Chezzi «le resistenze, culturali più che di portafoglio, sono dure a morire. Sta di fatto che le opportunità offerte dal digitale sono troppo ghiotte per non essere colte al volo. A partire proprio dalle piccole imprese. Nelle prossime settimane nascerà ufficialmente il cluster Made in Italy. E di sicuro ci darà una grossa mano».
Già, il cluster Made in Italy, uno dei dodici previsti dal Programma nazionale della ricerca 2015-2020 è (finalmente) ai nastri di partenza. «Ci abbiamo pensato a lungo e alla fine abbiamo deciso che anche noi dovevamo essere tra i soci fondatori» spiega Emilio Fortunato Campana, direttore del Ditet, il Dipartimento di ingegneria del Cnr, da cui dipendono venti istituti e un migliaio di ricercatori. «Del resto, era ora passata che il Cnr si avvicinasse pure a questi settori. Metteremo a disposizione le nostre competenze trasversali: l’informatica in senso stretto e la realtà virtuale per la progettazione e la prototipazione di nuovi prodotti, l’analisi dei Big data per la profilazione della clientela, la registrazione e la gestione dei domini internet per il marketing moderno e l’ecommerce. Tutti ripetono che occorre un salto di qualità. Bene, noi vogliamo essere un ponte tra le migliaia di imprese del Made in Italy e il sistema della ricerca». Alta moda e alta tecnologia: non è il matrimonio perfetto?