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Lo smart working svuota le città

Varie

07 Luglio 2020

American Express

Dei circa sette miliardi di abitanti sul pianeta terra, ad oggi, la metà vive in città. Il fenomeno dell’urbanizzazione, almeno a inizio 2020, è previsto in crescita, e si stima che entro il 2030 il 60% della popolazione mondiale sarà concentrato in aree metropolitane.
 
 
Il Covid-19, il distanziamento sociale e lo smart working, tuttavia, hanno improvvisamente fatto perdere di senso molti dei motivi per i quali la vita sociale in tutto il mondo ruota sostanzialmente attorno alle grandi città. In sostanza, se non c’è più necessità di abitare in prossimità del posto di lavoro e se con le infrastrutture digitali si può operare benissimo da remoto, a cosa servono le città? Perciò si sono già aperte forti discussioni tra chi considera il modello urbano ormai da mettere in soffitta (“in città resteranno solo i poveri, mentre i ceti medi e ricchi si trasferiranno in più ampie abitazioni in campagna”), e chi invece pensa che il periodo di incertezza sia transitorio e presto si tornerà alle vecchie abitudini.
 
 
Certo, la spinta alla digitalizzazione ha portato molte aziende a sviluppare piani di home working e, in qualche caso, smart working che diventeranno strutturali anche dopo l’emergenza sanitaria: il quotidiano The New York Times non richiederà ai suoi 4mila dipendenti di tornare in ufficio, almeno fino al gennaio 2021. Anche in Italia Fastweb o Unes supermercati hanno preso questa strada, ciò significa meno gente in giro, meno traffico, grossi problemi per bar, ristoranti e negozi attorno ai posti di lavoro in città, e anche un crollo del valore immobiliare metropolitano.
 
 
Il recente report “Niente resterà come prima” della Associazione Gianroberto Casaleggio è piuttosto drastico sul punto: “La decentralizzazione dalle città è uno degli effetti attesi, e maggiormente paventati dal mercato immobiliare, del Coronavirus. Molti investitori, proprietari di immobili e potenziali acquirenti si chiedono quale sarà il futuro delle metropoli, con la decentralizzazione degli interessi economici, del lavoro, dell’intrattenimento notoriamente focalizzato nelle grandi città. La forte domanda di spazi residenziali negli ultimi anni, dovuta al continuo afflusso di persone nelle metropoli, ha portato a un significativo aumento dei prezzi delle case in vendita e in affitto. Ora viviamo una netta controtendenza, appurata da due avvenimenti. Il primo a Milano, dove il gruppo Unibail-Rodamco-Westfield ha annunciato che il progetto per la costruzione del più grande centro commerciale in Italia, destinato a Segrate e denominato Westfield Milano, è stato ufficialmente sospeso. Inoltre, la società immobiliare francese Klépierre ha annunciato i suoi risultati del primo trimestre del 2020: il fatturato è sceso del 4,2% e i redditi da locazione del 4,7%, principalmente a causa di cessioni di attività. Le stime per il mercato immobiliare italiano suggeriscono che ci vorranno tre anni per recuperare le perdite accumulate finora, pari a 122 miliardi di euro”.
 
 
Insomma, nell’aria volteggiano alcuni scenari da incubo, come quelli di una Manhattan letteralmente svuotata: i dirigenti di Barclays, JP Morgan Chase e Morgan Stanley, banche con decine di migliaia di addetti nei grattacieli di New York, per ora ritengono altamente improbabile che tutti i loro lavoratori tornino mai in quegli edifici. Jes Staley, amministratore delegato di Barclays, ha addirittura affermato che “l’idea di mettere 7mila persone in un edificio potrebbe appartenere al passato”. Anche la società di ricerche Nielsen è arrivata a una conclusione simile: i suoi 3mila impiegati in città, anche post Covid-19, non dovranno più essere in ufficio a tempo pieno, lavorando invece da casa per la maggior parte della settimana.
 
 
Ovviamente, il flusso di lavoratori in arrivo in città fa molto di più che occupare stanze d’ufficio. Intere economie, come detto, sono state modellate proprio attorno al vasto via vai di persone da e verso gli uffici, dagli orari delle metropolitane, di autobus e treni alla costruzione di nuovi edifici, a ristoranti, bar, negozi che dipendono dai pendolari per la loro sopravvivenza. Pendolari programmati, insomma, a consumare benzina e buoni pasto per sostenere l’economia.
 
 
Le tasse immobiliari, poi, forniscono circa un terzo delle entrate di città come New York, contribuendo a pagare per servizi di base come la polizia, la raccolta dei rifiuti e le riparazioni stradali. Proprio per questo che i sindaci delle grandi metropoli, con il milanese Beppe Sala in testa, spingono così tanto verso un ritorno alla normalità e preferirebbero che lo smart working fosse rimesso presto in soffitta.
 
 
Va tuttavia sottolineato come, più volte, si sia paventato l’abbandono del modello urbano, e come invece la città simbolo di questo modello, New York City, abbia sempre resistito, riemergendo più forte da una serie di catastrofi e battute d’arresto: l’influenza spagnola del 1918, la Grande Depressione del 1929, la crisi degli anni ’70, gli attacchi terroristici del 2001, i grandi crack finanziari del 2007-2008. Ogni volta si diceva che la città sarebbe cambiata per sempre, ma ogni volta i pronostici sono stati sbagliati.
Quindi lo smart working, su base volontaria e non obbligatoria, darà sicuramente vantaggi. Ma, secondo Nicholas Bloom, professore di economia all’Università di Stanford, “tante ricerche dimostrano come gli incontri faccia a faccia siano essenziali allo sviluppo di nuove idee e per mantenere concentrati e motivati i dipendenti. Se si lavora troppo da casa temo un crollo dell’innovazione. E le idee che stiamo perdendo oggi potrebbero generare meno prodotti e brevetti nel 2021, e quindi ridurre la crescita nel lungo termine”.
 
 
Il giusto equilibrio, perciò, sarebbe lavorare in remoto almeno un paio di volte a settimana, poiché “è la routine coatta che uccide l’innovazione”. E in effetti, lo sviluppo del capitalismo nel mondo occidentale è andato di pari passo con la crescita del numero di persone che scambiavano idee in spazi pubblici o quasi pubblici. È questa mescolanza che favorisce la creatività, e i grandi centri urbani sono un terreno particolarmente fertile. Quindi nei prossimi anni possiamo ragionevolmente attenderci smart working a piccole dosi, e un calo, ma solo parziale, del flusso di pendolari verso la città.
 
 
Peraltro, tutti questi ragionamenti sul modello città vengono fatti a causa di una pandemia. Ma va ricordato che l’architettura moderna e l’urbanistica sono sempre andate di pari passo con la difesa della salute, prendendo spunto proprio dalle malattie per fare passi in avanti. Le prime leggi urbanistiche, infatti, sono nate nel XIX secolo durante la Rivoluzione industriale per controllare le malattie infettive, per aumentare le dimensioni delle case, in modo da ottenere una maggiore ventilazione e più luce, “una scelta dettata dai timori per tubercolosi e altre malattie simili”, spiega Carlos F. Lahoz, professore di pianificazione urbana presso il Ceu San Pablo di Madrid.
 
 
La città, quindi, può essere un presidio di tutela della salute pubblica. Inoltre, il Covid-19 e lo smart working ci forzano momentaneamente a mantenere le distanze ed a ridurre la densità abitativa delle superfici. Ma la densità, dice Lahoz, è il modo più sostenibile di vivere, poiché la concentrazione dei servizi consente l’accesso a una popolazione più ampia. E, come sottolinea Richard Sennet, docente di urbanistica al Mit di Boston, “le città densamente abitante sono anche più efficienti da un punto di vista energetico. Spopolando le città, quindi, vi potrebbe essere anche un tema di ulteriore peggioramento del cambiamento climatico. Una città sana richiede che il settore dei trasporti garantisca in qualche modo una distanza di sicurezza tra i viaggiatori, cosa che è incompatibile con il modo in cui funziona il trasporto pubblico”. La soluzione a questo, aggiunge Sennet, sarebbe il concetto di “città dei 15 minuti” che si sta sviluppando a Parigi, e di cui parla molto anche il sindaco di Milano, dove è possibile andare a piedi o in bicicletta al lavoro, a fare shopping, usufruendo di tutti i servizi primari all’interno del quartiere.
 
 
Ovvio, però, che tale soluzione è fuori dalla portata della maggior parte delle città meno ricche, dove i luoghi di lavoro o le scuole sono spesso molto lontani dalla propria zona di residenza. Non ha senso dire a qualcuno di passare tre ore a pedalare per andare al lavoro e poi tre ore per tornare. Una posizione condivisa da molti, allora, è che vi sarà un necessario riequilibrio tra le aree forti e urbane, e le aree marginali, i centri minori, i paesi, i borghi, verso una esperienza progettuale di cosiddetta “città nella natura”. Il legame tra le città e i centri minori – in molte parti d’Italia negato e rimosso da anni – è rappresentato dai corridoi ecologici, le infrastrutture della natura, fiumi, torrenti, laghi, vallate, in pratica quell’insieme di habitat, tra di loro interconnessi, che mantengono il grado di biodiversità e l’equilibrio ambientale. Riattivare questi corridoi, attraverso sensibili progetti di paesaggio, può interrompere il cortocircuito tra uomo e natura, tra città e aree interne. Insomma, concludono gli esperti, non un drastico abbandono del modello cittadino, ma più campagna per la città, più ecologia per tutti, più ossigeno e aria pulita, meno concentrazione urbana-metropolitana, più diradamento edilizio con intervalli ecologici, per riabitare i centri minori anche con l’aiuto della tecnologia e il telelavoro.

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