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Moda e lusso, Brexit non fa paura

Business Insights

08 Marzo 2019

American Express

Il D-day dovrebbe essere il 29 marzo, giorno in cui la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea, ma il condizionale è d’obbligo. Perché le ipotesi sul tavolo, a parte quella più estrema di un distacco “no deal”, spaziano dal rinvio al referendum “riparatore”. Mentre la politica è al lavoro sulla complessa matassa da sbrogliare, l’industria della moda sta più che altro a guardare. Dall’uno e dall’altro lato della Manica.

L’industria contro il «leave»

Le imprese della moda britannica – un settore da 38 miliardi di euro di ricavi – avevano dichiarato di essere contrarie al «leave»: i direttori creativi delle case di moda, interpellati dal British Fashion Council, si erano schierati in massa (90%) per il no all’uscita dall’Unione europea. L’atteggiamento non è cambiato molto, anche perché, secondo i dati, l’impatto della Brexit sul settore sarebbe poco gentile: un report dell’UK Trade Policy Observatory citato nel “The fashion market and trade 2.0”di McKinsey evidenzia come «a causa dell’alto livello di esportazioni, dell’impiego di talenti internazionali e della dipendenza da materie grezze di origine straniera» renderanno quella della moda una delle industrie britanniche più colpite dalla Brexit.

Riorganizzazione in stand by

Capire se e come si siano riorganizzate le imprese britanniche che producono nel Regno Unito – o all’estero, importando poi i beni in Uk per la fase di commercializzazione – è difficile. A gennaio Julie Brown, chief operating and financial officer di Burberry, aveva detto al Financial Times di temere l’interruzione della supply chain (l’azienda produce anche in Italia) e i ritardi nelle consegne. Micheal Ward, managing director di Harrods, a ottobre 2018 aveva parlato di una spesa extra annua di «otto milioni di per i documenti» e aveva ammesso che il department store londinese aveva aumentato gli stock (per abiti e prodotti beauty) in vista del uscita dall’Ue, prevista per la primavera.
Tutte le aziende britanniche interpellate direttamente per questo articolo si sono trincerate dietro un «no comment» o non hanno dato risposta. Un comportamento che rispecchia il loro approccio alla Brexit? Può darsi: le imprese sono avvolte in una nube d’incertezza e, in molti casi, non sanno ancora come muoversi concretamente. «Mentre molti marchi hanno spostato la logistica fuori dai confini del Regno Unito, molti altri sono preoccupati specialmente del caos politico in corso e stanno aspettando di capire cosa succederà prima di prendere decisioni strategiche sulla relocation – spiega Tamara Cincik, fondatrice di Fashion Roundtable, segretariato dell’intergruppo parlamentare per il tessile moda -. Queste decisioni, inevitabilmente, avranno un impatto sulla reputazione e sulla leadership nella moda mondiale, finendo per ridurla».
 

Con l’Italia relazioni in crescita

Visto dall’Italia il Regno Unito è un mercato importante per la moda made in Italy: nei primi 10 mesi dell’anno è stato il 5° cliente per l’intero Tessile-moda-accessori (che comprende anche occhiali, gioielli e concia); terzo per il tessile-abbigliamento.
Le elaborazioni di Confindustria moda su dati Istat relativi ai settori tessile-abbigliamento, calzature e pelletteria, lo fotografano come un settore dinamico sia prima sia dopo il referendum per l’uscita dall’Ue. Tra il 2013 e il 2017, infatti, l’export italiano verso il Regno Unito è cresciuto costantemente, indipendentemente dall’indebolimento della sterlina, mettendo a segno un + 28,4 % e fermandosi poco sotto i 3 miliardi di euro. Nei primi 10 mesi del 2018, la crescita è stata del 7,7 per cento. L’import, che vale poco più di mezzo miliardo nel complesso, tra il 2013 e il 2017 è cresciuto del 12,5%, ma ha registrato una flessione (-4,8%) proprio tra il 2017 e il 2016, l’anno in cui è stata decisa la Brexit. Il 2018 è stato l’anno del rimbalzo: +15,2% nei primi 10 mesi.
Ad essere cresciuto in modo significativo (+32,4% nel periodo 2013-2017) è soprattutto il saldo commerciale che a fine 2017 ha sfiorato i due miliardi e mezzo di euro e nei primi 10 mesi del 2018 ha messo a segno un +6,1 per cento.

Incrementi degli stock

Nell’accelerazione sui fronti export e import che si è registrata tra gennaio e ottobre 2018 si può leggere un tentativo di prepararsi all’incerto momento del distacco (che, nel caso di un no deal, potrebbe coincidere con l’applicazione di dazi e con un “intasamento” doganale) facendo reciprocamente scorta di beni: «Sì, è possibile – spiega Roberto Luongo, direttore generale di Ice, fresco di nomina, ed ex rappresentante dell’Istituto a Londra – anche perché i beni di moda, seppur soggetti alla stagionalità, non sono deperibili. Sicuramente le aziende hanno aumentato lo stock». Luongo conferma l’incertezza in cui si muovono le imprese, sia italiane sia britanniche, ma traccia uno scenario positivo per il lusso anche in caso di uscita senza accordo: «Il prodotto di lusso, pur se con i listini ritoccati dai dazi, non credo soffrirebbe troppo, considerato chesi rivolge a una clientela di fascia alta. Diverso potrebbe essere il destino dei prodotti di fascia media: il nostro ruolo sarà quello di continuare a promuovere il made in Italy nel Regno Unito potenziando gli eventi e i progetti ad hoc».

Budget invariati per i buyer

Se, dunque, chi ha potuto ha fatto scorta di collezioni primaverili (per evitare un potenziale caos riassortimenti) e materie prime per produrre le collezioni invernali 2019/2020, i buyer britannici a Milano per acquistare l’invernale non hanno apportato cambiamenti alla loro strategia (né ai budget).
«I gruppi inglesi non hanno avuto indicazioni di sorta in merito alla Brexit – dice Riccardo Grassi, titolare dell’omonimo showroom – e al massimo ci siamo detti di raggiornarci a fine maggio. Nel peggiore dei casi? Londra si trasformerà in una nuova Singapore, il lusso lì avrà sempre mercato».
Sulla stessa linea anche lo staff di Massimo Bonini Showroom (specializzato negli accessori): «C’è tensione, ma nessun cambiamento: i budget sono gli stessi – fanno sapere – e le vendite al sell out perfino in crescita».

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