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La scienza del cervello usata per potenziare le tecniche commerciali: è questa la promessa del cosiddetto neuromarketing, una disciplina nata all’inizio di questo secolo per studiare in modo scientifico i processi che portano i consumatori a preferire certi prodotti ad altri. Anche se l’idea era in circolazione già da qualche anno, è solo nel 2002 che il neologismo “neuromarketing” viene coniato da un professore olandese di ricerche di mercato di nome Ale Smits. E sei anni più tardi, nel 2008, è stato pubblicato il libro che tutt’ora è considerato la Bibbia in materia, il bestseller Buyology di Martin Lindström.
Il punto di partenza di questa nuova branca di studi è la consapevolezza dell’esistenza di alcuni limiti nei sistemi tradizionali impiegati per le ricerche di mercato. Se ci si basa su interviste, questionari e focus group, infatti, occorre tenere conto che alcune risposte potrebbero essere alterate dalla paura del giudizio altrui, dalla vergogna, dal pudore o dai pregiudizi. E, soprattutto, qualunque botta-e-risposta con il ricercatore fa riferimento alla parte razionale del nostro modo di pensare. Tra omissioni, piccole bugie e meccanismi inconsci di cui nemmeno ci rendiamo conto, non di rado il risultato di una ricerca di mercato mostra una certa differenza rispetto a quanto poi accade nelle performance di vendita.
Ecco allora l’idea: usare le più innovative tecniche di analisi del cervello umano per esplorare a fondo i meccanismi alla base del processo di scelta, in modo da poter ottimizzare la promozione dei prodotti, alla luce delle informazioni aggiuntive a disposizione. Naturalmente questo richiede la combinazione delle conoscenze di diversi ambiti, che spaziano dal marketing tradizionale alla psicologia cognitiva e sociale, passando per la neurologia e le neuroscienze. Nella pratica, l’obiettivo è di mettere a punto una strategia di vendita efficace, tarando in modo opportuno la comunicazione, la costruzione della fiducia nel marchio, le strategie di mercato e qualunque tipo di interazione che si genererà tra il consumatore e brand.
Il neuromarketing come scienza del futuro è diventato uno slogan, con due possibili interpretazioni, entrambe valide. In senso ottimista, sicuramente nei prossimi anni questa disciplina è destinata ad acquisire un ruolo di primo piano, perché rappresenta una naturale evoluzione tecnologica e culturale dei modelli commerciali attuali. Volendo essere rigorosi, tuttavia, al momento può essere solo in parte considerato una disciplina scientifica, poiché per molti aspetti è ancora un campo pionieristico e giovane.
A essere ben consolidate sono invece le diverse tecniche non invasive con cui vengono studiate le reazioni umane davanti a un prodotto: l’elettroencefalogramma, la risonanza magnetica funzionale, il tracciamento dei movimenti oculari (eye-tracker), la misura della frequenza cardiaca e delle caratteristiche elettriche della pelle, nonché l’analisi automatizzata della mimica facciale. Già oggi, da queste analisi è possibile stimare il livello di coinvolgimento emotivo e di attenzione, e quindi avere indicazioni su che cosa stia funzionando meglio o peggio a livello promozionale. Ciò che invece necessita di ulteriori studi è però l’interpretazione del significato profondo di queste misure che, a sua volta, richiede una dettagliata conoscenza dei meccanismi cognitivi e delle reazioni emozionali, ossia proprio ciò su cui i neuroscienziati di tutto il mondo sono alacremente al lavoro.
Pensare che possano esistere ricette semplici – o magari decaloghi del neuromarketing con consigli su colori, forme e parole chiave – vorrebbe dire travisare il senso di una disciplina che merita di potersi sviluppare in modo serio e rigoroso, evitando slogan irrealistici fomentati dalla moda del momento. La comprensione dei meccanismi alla base delle nostre decisioni richiede di capire anzitutto come intervengono i nostri ricordi, le nostre emozioni e i nostri pensieri. Una volta che lo studio del cervello avrà dato risposte soddisfacenti a queste domande, anche il marketing potrà trarne benefico.
Il tutto con la necessaria attenzione, già richiamata da diversi esperti, all’etica: cosa accadrebbe se il neuromarketing fosse sfruttato per vendere prodotti dannosi per la salute o per influenzare il nostro comportamento elettorale? Come tutte le novità scientifico-tecnologiche, l’uso che se ne farà potrà essere virtuoso oppure deplorevole. Nel frattempo, comunque, un nuovo impulso alla ricerca sta arrivando dall’intelligenza artificiale e dai big data, che insieme potranno analizzare le informazioni digitali e i risultati sperimentali relativi a un gran numero di consumatori. Ricavandone, magari a breve, qualche ulteriore indicazione utile a migliorare le tecniche di vendita.