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Prove tecniche di scalabilità. Le 135 scaleup italiane legate all’ICT tentano di ritagliarsi un posto al sole con un capitale raccolto che sfiora il miliardo di dollari, attestandosi a 970 milioni. Ma l’impresa è titanica perché la partita si disputa su uno scacchiere digitale globale competitivo che è partito molto prima: infatti il 76% delle scaleup nostrane sono state fondate dopo il 2010 e in otto anni sono state protagoniste di 94 exit. L’ecosistema è dominato soprattutto da realtà di piccole dimensioni: l’86% ha raccolto finanziamenti tra 1 e 10 milioni di dollari, impegnando il 36% del capitale disponibile. Solo il 12% appartiene al segmento delle medie scaleup, ovvero da 10 a 50 milioni di capitale raccolto. E c’è soltanto il 2% che sfora la soglia dei 50 milioni.
La fotografia scattata da Mind The Bridge con la ricerca “SEP Monitor Scaleup Italy” è stata presentata ieri a Roma in occasione di #StartupDay.
«Le startup italiane sono partite più tardi rispetto ad altri Paesi, ma l’innovazione richiede grandi investimenti ed esiste un effetto di accumulo. I ritardi che si scontano non si recuperano. Poi come Italia abbiamo un passo rallentato e la speranza di recuperare terreno è irrealistica», afferma Alberto Onetti, Presidente di Mind The Bridge.
In Italia di circa 1 miliardo di dollari l’85% è stato raccolto da venture capital e investimenti privati, il restante 15% tramite Ipo di 9 aziende che si sono quotate in Borsa. Il 78% dei round di investimento è guidato da investitori locali, il 9% da europei, l’8% da statunitensi. «Ma i round finanziari guidati dagli investitori italiani sono di dimensioni più ridotte. Siamo strutturalmente e storicamente connotati da nanismo e con una bassa spinta imprenditoriale. Peraltro il sistema finanziario è limitato, ancorato al bancario e non c’è mai stata l’urgenza di mettere l’innovazione nell’agenda politica del Paese. Ecco perché si cercano exit altrove», puntualizza Onetti.
Oggi l’Italia si colloca all’undicesimo posto nell’Europa continentale sia per numero di scaleup che per capitale raccolto. Il confronto impietoso sta nei numeri, con le cifre nostrane risibili rispetto alle 4.200 scaleup europee e lontane se parametrate alle 1.550 scaleup di Uk e Irlanda, che portano in dote una raccolta complessiva di circa 21.5 miliardi di dollari. Ma siamo distanti anche dalle 1150 scaleup di Germania, Francia. E il capitale nostrano corrisponde allo 0,05% del Pil, un dato al di sotto della media europea (0,33%), ma anche dei Paesi del Sud-Europa (0.14%).
Un mercato che non presenta particolari specializzazioni. A imporsi è il gigante fashion-tech Ynap, unica scaleup italiana protagonista poche settimane fa dell’Opa amichevole lanciata dal colosso svizzero Richemont di 5,4 miliardi di euro per 38 euro ad azione. Ma tra le eccellenze nostrane si distinguono FacilityLive, MoneyFarm, Musement, Mosaicoon, Cloud4Wi. Milano resta il principale polo per le scaleup italiane, accogliendo il 42% delle realtà con 527 milioni di dollari di capitali raccolti. «Ma sono altre le piazze che stanno facendo incetta di talenti, investimenti», precisa Onetti.
Un elemento distintivo emerge nella lettura dei dati nostrani: ci sono 22 scaleup – quindi il 16% del totale – che sono “dual companies”, ovvero startup italiane che hanno spostato l’headquarter all’estero pur mantenendo lo sviluppo in Italia. E hanno raccolto in media 11.8 milioni di dollari, contro i 6,3 milioni delle scaleup rimaste in patria. «Il modello per l’Italia sembra funzionare, anche se non è ottimale perché c’è un pezzo di impresa che va all’estero».