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Vola l’e-commerce: +14mila imprese

Smart Business

08 Marzo 2019

American Express

Dai vestiti ai cosmetici, dai mobili ai giocattoli. Passando per auto, moto, bici, food, libri, occhiali, sistemi di allarme e addirittura piante di acqua dolce. Sono alcuni dei prodotti che le imprese italiane, piccole e grandi, vendono online. Accanto a colossi come Amazon, Alibaba, Booking, e-Bay, Zalando. Un’impressione che qualsiasi consumatore più o meno alfabetizzato tecnologicamente ha navigando in rete e che viene confermata dai numeri di Infocamere e Unioncamere: in dieci anni le imprese che commercializzano sul web sono cresciute di 14mila unità. Con un aumento medio del 24% l’anno. A fronte di un calo del 2% delle aziende al dettaglio. Due destini che si uniscono quindi. A dispetto del ddl “base” sulla chiusura domenicale dei negozi che ricomincia di fatto domani il suo iter alla Camera e che, anche dopo l’ultimo compromesso tra Lega e M5S, glissa sul legame tra commercio tradizionale ed e-commerce. Tra le proteste delle associazioni di categoria che stanno preparando una “controproposta” unitaria.


I dati di Infocamere e Unioncamere

A fine 2018 le imprese italiane dell’e-commerce erano oltre 20mila, contro le 5.933 del 2009. Un “boom” che – come confermano i dati di Infocamere e Unioncamere – non ha compensato la contrazione degli operatori al dettaglio (-16mila). Ma c’è un’altra sorpresa. L’opportunità del web ha stimolato soprattutto gli imprenditori del Sud. Se in termini assoluti le regioni a più alta crescita sono state Lombardia, Campania ed Emilia-Romagna, in termini relativi l’aumento medio si è avuto in Campania, Abruzzo e Calabria, seguite da Puglia, Basilicata e Sicilia. Stesso discorso a livello provinciale con Foggia e Ragusa star di internet. E, più in generale, appena tre capoluoghi del Centro-Nord tra i primi 20: Bergamo (in ottava posizione), Cremona (tredicesima) e Siena (ventesima).
 
 

Il ddl sulla chiusura domenicale

In questo scenario si inserisce la ripresa dei lavori del ddl sulla chiusura domenicale dei negozi. Si riparte dal testo base messo a punto dal relatore Andrea Dara (Lega) nato sulle ceneri di sette diverse proposte di legge. I Gruppi dovranno presentare in commissione Attività produttive della Camera una nuova lista di audizioni dopo le oltre 30 già effettuate in autunno. Già in quella sede molto delle voci ascoltate (ad esempio Confindustria ma anche l’Antitrust) hanno posto l’accento sul legame tra il commercio tradizionale e l’e-commerce. Senza successo però. Il testo frutto del compromesso gialloverde prevede 26 aperture domenicali su 52 e la chiusura nelle 12 festività nazionali. Con una deroga per 4 giorni di apertura a scelta delle Regioni. E per i centri storici e i negozi di vicinato che potranno rimanere aperti tutte le domeniche dell’anno, eccetto le festività. Per le zone turistiche poi le 26 domeniche potranno essere concentrate in alta stagione.
Nei prossimi giorni il mondo del commercio, delle coop e della distribuzione presenterà una posizione unitaria. «C’è bisogno di trovare un equilibrio intelligente sulle chiusure domenicali. Restare più aperti in questi anni non è coinciso con un aumento dei consumi, ma solo con uno spostamento di profitti dai più piccoli ai più grandi», avverte Mauro Bussoni segretario generale di Confesercenti. Che vede un futuro sempre più nell’«ibridazione» tra esercizio commerciale fisico che offre servizi e quello via web. Ma affrontando il collo di bottiglia delle dot.com: «Oggi fino all’80% di chi vende online passa per aggregatori come Amazon ed Ebay che costringono a ridurre i prezzi e quindi anche i margini dal 15 al 30% pagando tra l’altro poche tasse». Un concetto, questo, ripreso e rafforzato da Enrico Postacchini, membro di Giunta Confcommercio con delega alle politiche commerciali: «Quello dell’e-commerce sarà uno dei capitoli centrali del nostro documento unitario: oltre a chiedere l’introduzione di voucher per la digitalizzazione del commercio è fondamentale che il Governo si concentri, anche a livello europeo, sulla fiscalità, facendo pagare a questi player le stesse tasse che paghiamo noi».

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